Valeria Manfreda, Luca Bianchi
UOSD di Dermatologia, Policlinico Tor Vergata
SARS-CoV-2 è un nuovo coronavirus, isolato per la prima volta in Cina nel Gennaio 2019 e responsabile di un’infezione respiratoria definita COVID 19, caratterizzata da una mortalità del 5,6%.1 SARS-CoV-2 si è diffuso rapidamente in tutto il mondo, dando luogo nel Marzo 2020 ad una vera e propria pandemia. L’Italia è stata uno dei paesi maggiormente colpiti. Tutto ciò ha posto i dermatologi di fronte alla necessità di rispondere ad alcune domande concernenti i pazienti in trattamento con farmaci immunosoppressori ed immunomodulanti, in quanto affetti da patologie come la psoriasi, l’artrite psoriasica, la dermatite atopica e l’idrosadenite suppurativa. Ci si è chiesti se questi pazienti presentassero un maggior rischio di contrarre l’infezione, o una prognosi peggiore e se, pertanto, il trattamento farmacologico andasse interrotto a scopo preventivo o nel caso in cui l’infezione fosse contratta.
In una lettera all’Editore inviata a JAAD, M. Lebwohl ha confrontato il tasso d’infezione complessivo e quello delle vie respiratorie superiori per ciascuna classe di farmaco biologico rispetto al placebo, utilizzando i dati pubblicati nei trial clinici.2 Per ciò che concerne i farmaci inibitori del TNF- α le infezioni complessive e quelle delle alte vie aeree hanno mostrato nei trials un’incidenza superiore del 7% rispetto al placebo, ad eccezione di etanercept per il quale non si evidenziava alcun aumento. Ustekinumab presentava un lieve aumento d’incidenza delle infezioni complessive, ma non di quelle delle vie aeree. Questo farmaco, tuttavia, inibisce l’attività dell’IL-12 che ha un ruolo importante nel combattere le infezioni virali. Gli antagonisti dell’IL-23 hanno mostrato un aumento dell’incidenza di tutte le infezioni fino al 9%, mentre i dati riguardanti le infezioni delle vie aeree sono più variegati. I bloccanti dell’IL-17 hanno evidenziato un aumento delle infezioni totali fino all’11%, ma in gran parte questo dato è legato ad infezioni micotiche. Un lieve incremento delle infezioni delle vie respiratorie superiori si è riscontrato, inoltre, con secukinumab, ma non con ixekizumab o brodalumab.2
Lebwohl conclude sottolineando come non sia possibile stabilire se le terapie biologiche rendano i pazienti più suscettibili all’infezione da COVID. Al contrario sappiamo con certezza come l’interruzione di un farmaco biologico possa determinare una perdita della risposta e, in alcuni casi, la vera a propria produzione di anticorpi anti-farmaco.2
Successivamente è stato evidenziato come nei pazienti COVID-19 con prognosi severa si riscontri la liberazione massiva di citochine responsabili esse stesse di buona parte del danno tissutale, soprattutto polmonare.3,4 Tra queste le citochine maggiormente coinvolte sembrerebbero essere TNF-α, IL-1, IL-6, and IL-8.3 Di conseguenza l’utilizzo di farmaci antagonisti del TNF- α, in linea teorica, potrebbe migliorare la prognosi di questi pazienti. A questo proposito è in corso un trial clinico randomizzato sull’utilizzo di adalimumab nelle polmoniti severe da Covid.4
Per la stessa ragione, anche l’utilizzo di farmaci inibenti l’IL-6 e di glucocorticoidi è al vaglio in studi condotti in Cina. D’altra parte, però, l’utilizzo dei corticosteroidi è da molti sconsigliato poiché potrebbero prolungare la sopravvivenza del virus.5,6 Posizioni simili sono state espresse in merito all’uso di ciclosporina, azatioprina e methotrexato, in grado di indurre uno stato d’immunosoppressione.
In conclusione, non esistono al momento linee guida condivise da adottare in questa particolare situazione sul tema delle terapie con farmaci immunomodulanti e immunosoppressori.5,6 La maggior parte della comunità scientifica sembrerebbe essere concorde nell’evitare una sospensione preventiva di questi trattamenti, che probabilmente non modificherebbe significativamente il rischio di contrarre l’infezione ed esporrebbe il paziente ad una probabile riacutizzazione della patologia dermatologica di fondo.2,3,7,8 Più controversa è la linea da seguire nel caso di pazienti che contraggano l’infezione: fino a quando non saranno disponibili ulteriori dati, l’approccio più condiviso è quello di una sospensione a scopo prudenziale o comunque di una valutazione da effettuare caso per caso, prendendo in considerazione anche aspetti come l’età del paziente e le sue comorbidità.2,3,7,8
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